la frazione
la frazione
Monticello
Dopo il convento di San Daniele, proseguendo oltre l’antica Fonte delle Acque, si dirama la frazione di Monticello che costituisce una realtà unica se confrontata con il rimanente territorio comunale, al punto che non sarebbe esagerato definirla “la frazione che non c’è”. Il visitatore, che si avvicina per la prima volta a queste colline, non riesce ad individuare immediatamente il paese, ma si addentra in un enorme presepe dove le varie abitazioni sorgono sparse. Il centro è costituito da una vecchia osteria e dalla piccola chiesa e da un piazzale con il monumento ai caduti della prima e della seconda guerra mondiale.
Se si scorre a ritroso nel tempo, agli anni ‘50 ‘60 del Novecento, si scopre che Monticello contava oltre 600 abitanti, due scuole elementari, due sagre paesane, tre negozi di generi di prima necessità, cinque osterie e una fervida attività parrocchiale. Su tutto questo, però, dominava tanta miseria, motore di una forte emigrazione che in pochi anni dimezzò la popolazione. Le origini più remote della piccola frazione, invece, risalgono alla presenza di un antico castello, appartenente alla nobile famiglia dei conti De Monticelli, che fu distrutto nel 1253 da Ezzelino da Romano.
In quello stesso luogo fu costruita la chiesa dedicata a Sant’Apollinare di cui si ha memoria già nel 1275. Nel corso degli anni la chiesa fu ampliata più volte: a fine Cinquecento, nel primo Settecento e negli anni ’30 del Novecento. Il paese per secoli fu un comune rurale, con propri statuti, retto da un consiglio con a capo il decano. Fu soppresso solo nei primi anni dell’Ottocento con le riforme napoleoniche.
Nella storia quasi millenaria di Monticello, l’identità del paese si conserva più che nelle cose materiali nella memoria di chi a Monticello è nato e vissuto. Qui la storia è passata in punta di piedi e il turista più attento può cogliere una parte dell’antica identità del paese recandosi nel suo punto più suggestivo: il sagrato dell’originale chiesetta.
chiesa campestre
Chiesa di Sant’Apollinare
La solitudine del luogo permette di isolarsi da tutto: a valle, la grande pianura con i piccoli campanili piantati come spilli a segnalare la presenza dei tanti paesi; a lato, la lunga scalinata che discende nel bosco fino all’insolito “altare salvego”; di fronte, la Chiesa stessa e il campanile che, in due eleganti iscrizioni, ci precisa la sua data di nascita (1709) e quanto questa chiesa campestre sia legata al territorio ( “Con l’impegno congiunto del rettore e del popolo sono sorto e innalzo la mia cima fino alle stelle” e “L’inverno distrusse le viti, gli ulivi,i fichi e le noci e i frutti che la fertile Africa produce”).
Ad esso appoggiata, la facciata della chiesa è ornata da tre statue di Orazio Marinali: al centro, adagiata su un trono di nuvole, la Vergine ha un cenno di sorriso che ne rende il volto incantevole e ai lati il Battista e Santo Apollinare. A completare l’opera, addossata alla chiesa, un tempo si ergeva la canonica, ma il 10 settembre 1913 un incendio la distrusse completamente. Da quei ruderi anneriti un ventennio dopo sorgerà la nuova ala della chiesa che, se pur rispondente alla necessità di ampliamento, ne stravolge gli spazi. Una volta entrati ciò trova conferma: l’aggiunta del Novecento è mentalmente da cancellare.
Si immagini di entrare dal vecchio portale sì da cogliere l’originaria disposizione della piccola chiesa. Del Cinquecento rimane la sola navata verso l’antico altare maggiore e la piccola sagrestia. Il visitatore, entrando idealmente dal vecchio portale, viene colpito dall’altare maggiore per le ricche volute di marmo bianco e per il piccolo tabernacolo che risalta per le sue linee barocche. La pala che orna l’altare è opera di Costantino Pasqualotto e rappresenta S. Apollinare, S. Giovanni Battista, S. Agata e S. Lucia che assistono all’assunzione della Vergine corteggiata da angeli e putti.
Sulla navata si apre la Cappella del Rosario con l’altare decorato con preziosi intarsi di marmo. Interessante in quest’altare è la porticina del tabernacolo in cui un dipinto ad olio su rame traccia con poche e geniali pennellate una Deposizione sullo sfondo della notte. Su tutto troneggia la parte settecentesca con le magnifiche tele dipinte da Costantino e Giacinto Pasqualotto, incastonate nel soffitto a riquadri lignei. Le tele del soffitto rispettano una precisa disposizione: agli angoli i quattro pilastri della cristianità, gli evangelisti, affiancati dai grandi dottori della Chiesa (Bonaventura, Tommaso D’Aquino, Agostino e Girolamo); poi alcuni fra gli episodi più popolari dei Vangeli (Entrata di Cristo sulla mura in Gerusalemme, Cacciata dei mercanti dal tempio, Il buon Samaritano, Il figliol prodigo, La Samaritana al pozzo, S. Giovanni decollato) per arrivare al centro con la Gloria dei santi in Paradiso che culmina nella sfera celeste attorniata dalla Trinità. Grazie a chi e con quali elargizioni, questi artisti, tra i massimi esponenti del ‘700 vicentino, fossero stati assoldati per compiere tali opere in un paese così minuscolo, non ci è dato sapere, ma si può certamente affermare che di tutte le chiese della diocesi nessuna ha un soffitto paragonabile a quello di Monticello.
Ma Monticello non è solo la sua splendida chiesa, la sua gente e la sua festa patronale, in ogni stagione è territorio ideale per facili escursioni fra boschi e coltivi alla scoperta di fontane, lavatoi, pozzi, scaranti, doline, covoli e cave abbandonate, tutti aspetti tipici dei Berici sapientemente disseminati in queste colline che si distinguono per come digradano dolcemente, per come i loro promontori, simili alle dita di una gigantesca mano, accarezzano la pianura.
Momento ideale per la visita della chiesa sono i giorni festivi perché, oramai da un decennio, il parroco non risiede a Monticello e le porte della chiesa si aprono regolarmente solo per la Santa messa della domenica mattina dalle ore 9.30 . Sacro e profano riscoprono l’antico fervore in occasione dell’annuale festa del Santo patrono che si svolge la terza domenica di luglio. Per un fine settimana il paese si ritrova, si assaporano cibi e atmosfere che solo in “un paese che non c’è” si possono trovare.